Intervista analogica. Il poliedrico messaggio di RAM C dal jazz al rap, esploratore del suono della Cagliari conscious.

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RAMC è un artista poliedrico che nel suo percorso ha sperimentato, provato, studiato e continua ancor oggi a farlo, la musica e il messaggio. Nasce musicista e si innamora della cultura hip hop della quale conserva l’anima vera. Oggi ve lo presentiamo in questa ricca intervista analogica nella quale è stato molto capace nel raccontarsi e nel descrivere le sue opinioni sul panorama musicale e produttivo italiano e sardo, sia terra di origine nella quale ha il suo quartier generale. 

Davanti ad una birretta magari, raccontaci in breve chi sei , da dove arrivi e dove stai andando…   

Mi chiamo Ram Prasad. E’ il mio nome da quattro anni circa. Ho preso questo nome per motivi religiosi. Il mio nome di battesimo era Flavio. Sono nato a Cagliari e vivo di fronte al mare in una frazione di Capoterra. Il mio percorso è abbastanza variegato. Rispondendo alla domanda su chi sono oggi, direi: un rapper, un DJ, un chitarrista, un insegnante di musica, un apprendista di ogni cosa, mi piace.

Quel giorno che nel tuo cammino hai incontrato la musica…

Mia madre racconta spesso che la prima volta che dissi “mamma” fu alla chitarra di mio padre, appesa al muro. Ho iniziato prima a strimpellare il piano di mamma e poi a camminare. Ho iniziato a suonare la chitarra a otto anni, a scrivere rime a undici, in prima media. Da che io ricordi, ogni volta che mi hanno chiesto, da bambino, “cosa vuoi fare da grande?” ho risposto sempre “Il musicista”. Ho ascoltato e suonato in vita mia veramente di tutto: rap, jazz, metal, cantautori, world music, classica. In realtà non amo le definizioni di genere. Louis Armstrong, a quanto pare, disse che esistono solo due generi di musica: quella bella e quella brutta. Concordo con lui. Mi piace pensare che nella musica che faccio, convivono influenze di ogni cosa che ho ascoltato e amato nel corso della vita.

Il processo creativo è un’ aspetto importante della produzione. Come affronti un tuo progetto musicale ?

Nasce da un’urgenza espressiva interiore, ed è sempre il risultato di due processi: quello creativo e quello dello studio. Un motivo costante della mia vita è che studio. Approfondisco ogni aspetto che mi possa essere utile al risultato di portare alla luce i miei contenuti. Una cosa che non smette mai di affascinarmi in questo senso è che più approfondisco i linguaggi musicali e narrativi, più trovo punti di contatto tra loro, come in un grande, unico mosaico sonoro e letterario.

In principio il cantautorato, come sei arrivato alla cultura hip hop ?

In effetti la prima musica che ho suonato è stato il rock, da ragazzino. Avevo messo su una band con tre amici e suonavamo qualcosa che forse oggi si potrebbe definire “rap-rock”. Allora non cantavo. Suonavo la chitarra e scrivevo alcuni testi. Poi ho studiato chitarra classica al conservatorio, negli anni del liceo. In quegli anni conobbi il jazz e me ne innamorai, anche se mi piaceva moltissimo l’hiphop e mi affascinavano i DJ – erano letteralmente “i re della festa”. In quegli anni non pensavo di essere in grado di cantare (figuriamoci di rappare). Riguardo all’idea di poter fare il DJ, mi sembrava qualcosa di irraggiungibile: l’acquisto di due giradischi era semplicemente impensabile, e se a casa mia lo studio della musica classica era visto con una certa indulgenza, l’idea di intraprendere un’attività artistica come quella del DJ era veramente un concetto difficile anche solo da spiegare.

Fu ai tempi dell’Università e del conservatorio di Jazz che, incoraggiato da colleghe cantanti (specialmente Manuela Mameli) che decisi di dare una musica alle rime che non avevo mai smesso di scrivere. I miei primi testi erano parlati e cantati. In qualche modo, per una sorta di “coerenza” stilistica interna, quando arrivai a voler produrre il mio primo album “con la voce”, scelsi solo i pezzi cantati, e così iniziava il mio percorso oltre le sei corde. La voce e i testi iniziarono ad assumere nel mio approccio un’importanza preponderante rispetto all’aspetto musicale. Tuttavia, già dopo il secondo album “cantautorale”, mi era sempre più chiaro che quel linguaggio non fosse proprio il mio. O forse lo era ma non era giunto a maturazione. Dopo circa otto anni, ci stavo veramente stretto. In seguito a vissuti personali che manderebbero questa intervista decisamente off-topic, con l’ingresso al biennio del conservatorio di jazz, ho iniziato ad approfondire i legami tra il jazz e la cultura hiphop, trovando (o meglio ri-trovando) un universo espressivo immensamente duttile, aperto, coinvolgente, e in cui tutte le cose che avevo ascoltato e studiato fino a quel momento, riuscivano a coesistere, raggiungendo quelle che a mio modo di vedere sono vette espressive incomparabili. Sono arrivato al Djing e al rap da un percorso forse inverso a quello di molti, ma forse proprio per questo, abbastanza consapevole. Ed ecco RAMC.

Un ricordo che ti ha segnato nel bene e nel male legato al tuo percorso artistico

Quando avevo undici anni, il mio professore di italiano disse che avevo la voce di una vacca e che ero stonato. Risero tutti, compreso me – che ero pischello ma avevo già capito come parare i colpi -, ma ci rimasi malissimo. Dissi a me stesso che avrei suonato la chitarra (già lo facevo e ricevevo ottimi feedback) ma non avrei mai cantato. Fortunatamente mi sbagliavo. E si sbagliava pure quell’idiota del professore.

La musica può curare l’anima e anche il corpo ? 

Ovviamente sì. Paramhansa Yogananda, il grande yogi, riferendosi al processo di realizzazione spirituale dell’essere umano, diceva “Cantare è metà della battaglia”. Non avrei saputo dirlo meglio.

Arte e cultura e quindi musica sono spesso un territorio minato. Apparenza, social media, prodotti surgelati. Come la vedi ? 

Una cosa è fare arte, una cosa è venderla. L’arte a volte – come nel mio caso – è anche un mestiere. Nel momento in cui si vuol vendere qualcosa, gli si deve attribuire un valore economico. Ci sono molti modi di vendere. Va da se che più in grande si vuol vendere un prodotto, meno è importante la qualità intrinseca del prodotto e più diventa importante l’immagine che gli si riesce a dare. E’ la classica differenza tra prodotti artigianali e prodotti industriali. Più una produzione si massifica, più perde di importanza il suo aspetto qualitativo. Non dico che automaticamente si perda. Dico solo che è meno importante nel processo di vendita. La musica non fa eccezione. Una cosa che credo è che a vendere l’arte non debbano essere gli artisti ma i mercanti d’arte. Appena un artista fa qualcosa pensando a “quanto può vendere” perde immancabilmente di qualità. Credo che l’arte debba essere quanto più pura possibile. Se piace o a chi piace, è un problema che non dovrebbe porsi l’artista. Quando libertà artistica e favore del pubblico coincidono, è meraviglioso. Se non succede, bene lo stesso. Insegno proprio per mantenere la mia arte sempre libera da logiche che non siano semplicemente artistiche.

Collabori parecchio con artisti isolani. Cosa significa per te lo scambio e il fare community?

E’ la cosa più importante per l’arte. L’ideale romantico dell’artista solitario è semplicemente falso. E’ vero, il processo creativo in sé (il momento in cui letteralmente dai alla luce un’opera) avviene solitamente in solitudine, ma non è che la punta di un iceberg, il culmine di un processo di gestazione che è avvenuto grazie allo scambio, al trovarsi dentro a un flusso di coscienza collettivo, un cloud da cui più o meno inconsapevolmente traiamo idee, influenze, stimoli, modi di vedere la vita, mindset. Lo scambio e la costituzione di collaborazioni è fondamentale. Purtroppo in Sardegna questo amore per la collaborazione è quasi assente. Da una vita mi scontro con una realtà isolana fatta di competizioni stupide, guerre tra poveri, antipatie di quartiere e critiche distruttive. Ahimè… Fortunatamente non sono tutti così. Nell’arco del mio lungo percorso artistico ho collaborato con vari progetti artistici (Sikitikis, Balentes, Carrus Big Band, e tanti altri, fino a Sa Razza, di cui mi onora essere il DJ attualmente).

Quei 5 artisti o artiste che ti hanno guidato e ispirato maggiormente

Cinque?! Una domanda difficilissima. Te ne dico uno per categoria, ma nel farlo faccio torto a troppi altri.

Il chitarrista a cui son più affezionato è Carlos Santana (anche se nel jazz il mio riferimento di sempre è Wes Montgomery).

Il mio cantautore preferito è sicuramente Lucio Dalla (tutt’oggi sporadicamente mi capita di cantare le sue canzoni in teatro o rassegne monografiche). Il panorama cantautorale attuale non mi piace.

Il mio rapper preferito è Biggie, anche se ho un’ammirazione infinita per Eminem. Nel panorama italiano attuale mi piacciono molto i “conscious”: Claver Gold, Murubutu, Rancore, ma anche eroi della vecchia guardia come Danno, Joe Cassano, Primo Brown, e il mitico Frankie Hi NRG. Per quanto riguarda il panorama sardo, il mio primo riferimento – manco a dirlo – sono i Sa Razza. Lavorare con Quilo e Ruido è una fonte di ispirazione e apprendimento continui.

Lancia il tuo spoiler… 

A breve un po’ di collabs… preferisco non spoilerare troppo ma … STAY TUNED!

Qui e Ora. il futuro non esiste. Hai dei progetti per il presente? 

Sto lavorando al mio primo EP col mio workteam, Karati Records, insieme a Row-B e Faim, e contemporaneamente a una produzione con Prhome, CEO di True Life Records. Insegno alle scuole civiche di Cagliari e Quartu (chitarra, songwriting e un laboratorio di rap per bambini), e mi dedico ai miei progetti artistici: in primis Sa Razza, e un paio di progetti miei (un liveset rap one man band in cui suono i beat dal vivo con sampler e loopstation, un DJ set hiphop funk jazz, i Junkmatazz, il progetto jazz-hiphop con cui mi son laureato al conservatorio, e un quartetto jazz, il RAMC 4tet).

 

 

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